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Mediterraneo, sarcofago di scorie ed occultazioni (Anna Ricciardi)

di Anna Ricciardi

Navi che si dissolvono nel nulla senza lanciare il may day. Navi che vengono affondate utilizzando la polvere di marmo che a contatto con l’acqua si solidifica. Risulta essere particolarmente lunga la lista delle imbarcazioni affondate con carichi micidiali – relitti sospetti – se ne calcolano almeno 55 in tutto il territorio nazionale che si estende anche a continenti di ex domini coloniali, in primis l’Africa. Nel 1979 la nave “Aso”, carica di soffiato ammonico, affonda al largo di Locri. Nel 1986 stessa sorte per la Mikigan, carica di granulato di marmo. Durante il 1987 tocca alla Rigel, salpata da Marina di Carrara, trattenutasi poi nelle acque territoriali e internazionali fino all’affondamento a Capo Spartivento. Qui tutto sembra essere finalizzato alla truffa, materiali non dichiarati, presenza a bordo di blocchi di cemento contenenti forse rifiuti radioattivi. Da approfondite intercettazioni risulta - in una conversazione telefonica tra un intermediario di affari e un individuo di Cipro – si parli chiaramente di un carico formato da “merda”, alludendo dunque a qualcosa di non legale. Durante gli anni ’90 la nave “Rosso” si arena sulle spiagge calabresi. Conosciuta come nave dei veleni ma, spiega l’ex senatore dell’Udeur Nicodemo Filippelli “dal momento in cui si è arenata, nessuno è salito a bordo per controllarne il carico e verificare il contenuto effettivo trasportato nelle stive”. Ancora seri dubbi aleggiano su ciò che è accaduto realmente. Indagine che viene chiusa dalla procura di Paola perché – si legge – non emersi chiari elementi di collegamento tra il rinvenimento di materiali in località Foresta e la motonave Rosso” e ancora “per reati accertati all’epoca dei fatti a carico di pubblici ufficiali e militari, sono da considerarsi già ampliamente estinti per prescrizione”. Alcuna responsabilità è stata accertata per gli armatori ne le dinamiche dell’evento. Nel 1993 è la volta della “Marco Polo”, affondata nel tragitto tra Barcellona ed Alessandria. Nel 1997 centinaia di container dalla provenienza incerta e dal contenuto dubbioso vengono ritrovati nel porto di Eel Ma’aan in Somalia, costruito da imprenditori italiani. Meno di tre anni fa il ritrovamento della nave “Cunski” nelle profondità di Cetraro (Cosenza), vascello pieno di rifiuti tossici e radioattivi, secondo quanto rivelato dall’ex uomo di ‘ndrangheta Francesco Fonti.
L’allarme viene lanciato da Greenpeace in merito alla diffusione di foto scattate in Somalia risalenti al 1997, conferma di traffici illegali ed esportazioni di rifiuti dannosi, che coinvolgono non soltanto singoli soggetti ma vere e proprie organizzazioni malavitose in quanto simulare un incidente, un naufragio porta ad incassare i soldi delle assicurazioni e dei governi attraverso la liberazione dei carichi ingombranti. Navi chiamate anche “a perdere” finite sotto l’occhio della magistratura insieme a criminali e faccendieri che salpano da porti italiani per non giungere mai a destinazione. Oggi i riscontri non fanno altro che confermare quello che negli anni ’90 era stato avanzato. “Accordi, commerci radioattivi, smaltimenti criminali e affinità politiche in Italia e all’estero, armi in cambio del silenzio e della sepoltura di rifiuti per i guerrieri somali, notizie per le quali probabilmente Ilaria Alpi e Mirian Hrovatin persero la vita”. Luciano Tadini, pubblico ministero impegnato in tale ambito, afferma che “smaltire un rifiuto pericoloso può essere più conveniente che trafficare con la droga. Anche solo per il fatto che chi smaltisce rifiuti viene considerato un benefattore dalle società e viene pagato con denaro Pulito”.
“Secondo uno studio inglese svoltosi con la collaborazione di Legambiente, trattare in modo legale una tonnellata di sostanze pericolose in Occidente può costare tra i 100 ed i 2.000 euro, a seconda del tipo di rifiuto. In Africa il tariffario per sostanze dello stesso tipo va da 2.5 a 50 euro a tonnellata, come dire 400 volte di meno. Un risparmio medio di 1.000 euro a tonnellata che in Italia vuol dire un business illegale di 8 miliardi all’anno”. È giunta l’ora di ripartire definitivamente con le ricerche. Bisogna accertarsi sulle reali condizioni dell’ habitat marino per portare alla luce verità offuscate dalla criminalità organizzata con riferimento alle cosche della Ionica regina.

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