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Il debito "sovrano" dell'Italia ed i Paesi UE (Rosy Merola)

Nel 2010, la stabilità dell’area finanziaria dell’eurozona è stata gravemente minacciata dal rischio d’insolvenza della Grecia, a cui si sono aggiunte anche altre Nazioni claudicanti.
In questo modo, l’opinione pubblica è venuta a conoscenza di un nuovo grande rischio del mondo economico-finanziario, quello del “debito sovrano”. Ma cosa si intende per debito sovrano?
Innanzitutto, l’espressione “sovrano” viene conferita agli Stati per evidenziare la loro superiorità rispetto ad ogni altro soggetto operante nell’ambito dei propri confini territoriali.
Per rischio sovrano (sovereign risk) si intende il rischio di credito nei confronti del governo centrale. Il suddetto rischio trova il suo fondamento nell’immunità sovrana che salvaguarda il potere, da parte di un governo, di tassare reddito e ricchezza, di emanare leggi a propria discrezione che gli consentano di violare gli impegni assunti nei confronti dei debitori, nell’ambito della propria giurisdizione nazionale.
Ogni volta che, in sede di approvazione del bilancio annuale di uno Stato, le entrate sono superiori alle uscite tributarie previste, questo determina la creazione di debito pubblico. Il suddetto deficit può essere finanziato sia attraverso l’emissione di titoli di stato da vendere sul mercato, oppure attraverso il ricorso alla Banca Centrale, che batte nuova moneta. Con il primo tipo d’intervento, nuovo debito si accumula a quello presistente. Nel secondo, l’iniezione di liquidità da parte della Banca Centrale potrebbe portare a spinte inflazionistiche.
La crisi sovrana si manifesta quando, a seguito di una decisione presa dal governo di una nazione in crisi, si procede alla sospensione del pagamento degli interessi sul debito estero, oppure modificando unilateralmente le condizioni contrattuali su determinati titoli del debito pubblico.
Detto ciò, si deduce che i titoli di stato sono un buon indicatore della fiducia nella situazione politica ed economica dei paesi emittenti. Infatti, una misura del rischio sovrano è costituito dai rating ( il giudizio sul rischio di insolvenza di un emittente di debito) sui titoli pubblici prodotti dalle tre grandi agenzie specializzate: Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch.
Si tratta, per ciascuna agenzia, di un codice alfanumerico tra la AAA ( attribuito ai paesi privi di rischio) e la D (per default), per un totale di 24 livelli. Importante è la linea di demarcazione segnata
dal rating BBB: -da AAA fino a BBB- compresi, troviamo i titoli “investment grade” (o di qualità bancaria, meno rischiosi); i rating da BB+ a SD comprendono quelli degli “speculative grade.
I titoli con rating speculative grade sono in gergo indicati anche come high-yield o junk (“spazzatura”), a seconda che si voglia sottolineare l’elevato rendimento appunto perché più rischiosi o la bassa qualità.
Tutto ciò, non può non riflettersi sull’andamento della Borsa e sul mercato dei cambi. Più alto è il rischio di insolvenza di un Paese, minore sarà la predisposizione da parte degli investitori a sottoscrivere i suoi titoli, a meno che ad essi non venga corrisposto un premio a rischio, ovverosia tassi di interessi più elevati. In particolare, i credit default swap (CDS) sono una forma di assicurazione contro il rischio di default di un emittente; maggiore è la probabilità che l’emittente non sia in grado di ripagare i propri debiti, più elevato è il premio (spread) richiesto.
Da questa relazione inversa tra il grado di rischio di default di uno Stato e il rendimento dei suoi bond, gli operatori internazionali traggono le informazioni per i loro investimenti, i quali potrebbero dar vita a speculazioni, con conseguenze sulla stabilità dei mercati.
La scarsa credibilità nei confronti di un paese può, allo stesso tempo, tradursi in una crisi bancaria interna. Questo perché gli investitori, mentre all’interno del paese cercheranno di monetizzare i titoli, all’estero gli stessi titoli in quella moneta verranno venduti al fine di acquistarne altri in una valuta ritenuta più forte.
La situazione sopradescritta, tende a diventare ancora più delicata se rapportata ai paesi membri dell’UEM. La crisi greca, non ha fatto altro che evidenziare i punti d’ombra dell’unione monetaria.
Infatti, l’euro è risultata essere una valuta “incompiuta”. Il Trattato di Maastricht ha definito un’unione monetaria ma non un’unione politica. C’è una Banca Centrale comune ma non un Tesoro comune. Questo implica che, ritornando alle due forme di copertura del debito pubblico (emissione di titoli di Stato e/o creazione di nuova moneta da parte della Banca Centrale), agli Stati dell’UEM è stata preclusa la seconda forma di copertura, in quanto questo è un potere che compete unicamente ad uno Stato-nazione. In tal modo, è come se il debito sovrano dei Paesi membri fosse stato emesso in una valuta “straniera”, appunto l’euro. La moneta è unica ma i Titoli di Stato no. Inoltre, la loro impossibilità di stampare moneta, incrementa il rischio di default sui rispettivi debiti. Ciò comporta che i membri dell’UEM hanno più probabilità di default rispetto agli Stati veramente sovrani.
Per tanto, i mercati finanziari hanno cominciato a ri-prezzare il cosiddetto rischio-paese, soprattutto per quegli Stati con significativi problemi fiscali. In tal modo, si andranno ad alimentare le speculazioni sui titoli, la crescita dei rispettivi spread e il conseguente aumento del costo di rifinanziamento del debito stesso.
In conclusione, anche se la BCE in futuro deciderà di adottare riforme strutturali volte a ridurre i rischi degli Stati membri, fin tanto che continuerà a persistere questa dicotomia fra unione monetaria e unione politica, l’Unione Europea rimarrà sempre vulnerabile e instabile.
Rosy Merola - Economics
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